martedì 18 dicembre 2012

Coccodrilli e Lampadine





N° 5.960 





































1

Stanno lastricando il cielo.
Piovono

suoni dagli alberi, preghiere di Muezzin dai campanili a Piazza Vanvitelli

il duomo, dove qualche volta entro
per togliermi le scarpe,

Vola in giro per la Terra.

Dopo così poca strada, un male ai piedi che mi irrita e mi
pare di camminare sullo stesso segmento
di cerchio
x e y moltiplicati per una
costante,

uguale a zero.

Sul fondo blu i macchinisti,  il caffè nei bicchieri di carta
usa e getta, si riscaldano, abbracciandosi
dandosi del tu.

E non si chiamano per nome.



Lodewijk van Wittel da queste parti non deve essere passato mai, a piazza Krakovia
così per chi ti colora la pelle, e le labbra, e i pensieri.
Io sono nero.

Piena di ragazzi e la gradinata comunale, ragazze - attraenti,
dai capelli biondi lividi. Parlano di Faust,
di Hegel, nella loro lingua

Esperanza,  aspettano un gemito, un violino italiano,
che  risuoni in una soffitta russa
 assolata a travi.

Stretti, stanno, senza farsi promesse, di nessun genere, tranne:

- Nessuna Promessa, Da! -

Ho una emorragia alla fronte stavolta, e questo è un bene, perché c’è una aznalubma
Vicino alla nuova caffetteria. E' passato poco, premi
sul tasto rewind:

Vedi: l'emorragia, il ragazzo biondo, il cielo blu pesante, il
Duomo, le macchine che rullano l’asfalto celeste
I piccioni che miagolano

dal campanile. Qui ho il vitto,
l’ alloggio


3

Il fatto è questo, e mi premeva dirlo:

il calabrone vola perché sa che non potrebbe farlo e prende per il culo 
tutta la gente che ammicca alle citazioni su Facebook 


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e quanto concerne la MetaMatematica  
dei Rolling Stones, la fisica prima
di Epicuro. 

                                                                                                            ------------
     


                             -

Di rose, di veli liberamente
alla signora del primo piano. A lei devo rose bianchissime,
qualche molletta, gialla, o verdi, rosse,
per i calzini. Filomena - mi pare si chiamasse -
O Forse Carmela.

Ma è un discorso sprangato, almeno fino all’apertura del bar
Sport O il bar 2000, quando sarà passata.
- l'inverno -

Per costruire il vetro di una cattedrale servono tante rose: il primo
elemento. I piccioni: il secondo.

La caverna saliti i 5 o 6 gradini di basalto ha

il soffitto a cassettoni  - la prima fila costa un'antirabbia -
- com'è che si è ferito? - Entro con il tesoro dei pirati,
siedo alla fine, nei pressi
    dell'uscita

con una pietruzza nera fra le mani, presa
nell'acquasantiera, come nevi
fra le dita.


4

Sono parole, o non lo sono.

Ma di giorno sfrontano le rapide, appena disfatte_So_di  _loro sospette, irate, d'amore, di diniego,
di noia, buone per la rubinetteria pregiata,
per rifare il letto da soli.

Mettono lacci alle orecchie le parole: fortunato 
e l’amante di tutti,, benefico, 
pacifico.
Con il cuore che batte al posto
giusto, nel mio.

E i segni degli scribi all'alba dei tempi, i misteri in fila, i buoi vicino alle palafitte,
  – e tiro con il fiato l'arco di Ulisse; sicuro di fare tre punti
al flipper, almeno, o al gioco dell’astronave.


                                                                                                                                                                        5

E' Forse il tuffo del tuffatore sul cotto?
Più ti somiglia.

Ma rende poco il silenzio, quando dopo essersi 
cercati, ci mostrano i nostri sessi freddi, 

contro lo schienale del lettino
piegati su noi per il caldo 

dell’ aeratore.

  
Non ho mai amato. Lo confesso. Perché l’amore è un’altra cosa
Perché è una malattia, perché basta
 tenersi le mani
Perché la poesia è un grosso tamburo che amplifica
le cose, o forse era la paura di

essere fregato che non mi faceva udire che in un limio continuo
e sfiora la beffa più gentile.
Ti amo.


6

La ferita poi serve per fare un 
vetro intero uno                                                  specchio, 

la radice al cubo dell’es - ma non descrive  pieno la mia anima che telegrafa
nella lingua dei circhi - soffio arbitrario, già cinto d'assedio - O può

darsi sia la facciata ultraterrena
che mi annebbia.

Le lenti sporche. Fisso nell’abbaglio consueto dell’attimo
che resiste anche nelle tue spalle fiere
negli occhi interiori,

sopra ogni cosa e l'oro per le allodole.

Soffro il senso della cosa grande, la cosa profonda,
la più piccola, la meno piccola;

ma sono ancora ai possessivi, figuriamoci! Spezzo da me ogni cosa. Ho dovuto. Ogni fibra 
di mondo. Tu, piccola cosa felice che la terra raccoglie, 

amore.









Elia Belculfinè, Michele
Mar. 18 Dic. '12










1 commento:

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